Il ritorno degli Arditi
di Marco De Baptistis
In occasione dell'uscita di "1919", 7" da collezione dedicato all'impresa fiumana di Gabriele D'Annunzio e dei suoi arditi legionari abbiamo realizzato una nuova intervista, schietta e diretta, alla band genovese.
Partiamo dall’inizio: come e perché sono nati gli Ianva? Quale è stato il percorso che ha portato al vostro primo Ep, “La ballata dell'ardito” e, successivamente, al vostro primo album, “Disobbedisco!”, dedicato all'impresa fiumana di Gabriele D'Annunzio?
Ianva entra appunto in scena nel 2005 con l’Ep "La Ballata dell'Ardito".
Questa la cronologia ufficiale. Ma in concreto il progetto operava da quasi un paio d'anni, sebbene privo di una denominazione definitiva e di una formazione vera e propria. Tutto ruotava attorno a un seminale terzetto che, con denominazioni e collaborazioni variabili, aveva licenziato pochi brani, destinati per lo più a compilation di area industrial/apocalittica.
Il gruppo inizia ad acquisire la sua identità “storica” solo con l'arruolamento di ulteriori elementi, ossia i musicisti a tutt'oggi coinvolti. Oltre, naturalmente, l'ingresso di Stefania, sia nella formazione che nella gestione comunicativa dell'intero progetto.
Non solo gli uni e l'altra resero tecnicamente possibile la realizzazione di composizioni fino ad allora solo virtuali, ma grazie a loro Ianva assunse la sua fisionomia definitiva. Che è, ricordiamolo, quella di una formazione allargata.
In controtendenza, dunque, rispetto a quell'attitudine a “minimizzare”, gli organici non meno degli arrangiamenti, peculiare dell'area stilistica entro la quale, almeno in un primo tempo, risultavamo compresi.
È stata poi la volta di "Disobbedisco!", il nostro debut interamente votato all'impresa fiumana e a D'Annunzio, l'Ep "L'Occidente", e poi via via "Italia: Ultimo Atto", "La Mano di Gloria" (progetto che comprendeva un cd e una trilogia libraria omonima), "Canone Europeo" e l'ultimo 7'' divertissement-celebrazione, in vinile dal titolo "1919", che è storia di questi giorni.
In molti hanno posto l’accento su una vostra vicinanza alla scena neofolk. Personalmente, credo che il vostro lavoro sia solo in parte assimilabile a quello di gruppi inglesi come Death in June o Sol Invictus. Vedrei, anche per motivi anagrafici e generazionali, delle affinità maggiori con il neofolk cantautorale di artisti più giovani come Rome. Voi cosa ne pensate? Conoscete i lavori di Jérôme Reuter? Uno dei suoi ultimi album, “Le Ceneri di Heliodoro”, rimandava, anche se indirettamente, proprio alla figura di D’Annunzio.
Sebbene non possa dirmi un completista della discografia di Rome, trovo i suoi lavori piacevoli e assai ben prodotti. Ma se parliamo d’influenze, citerei piuttosto proprio quei nomi che, come anche tu stesso confermi, non risultano immediatamente accostabili alla nostra alchimia. Ovvero i classici Death In June, Fire+Ice e soprattutto Sol Invictus.
Il lavoro di Tony Wakeford, lungo tutti questi anni e con buona pace dei detrattori, non ha mai mostrato significative crepe. Né sotto il profilo formale né sotto quello etico.
Sol Invictus non è stato solo fonte d’ispirazione ma, paradossalmente, data l’estrema malinconia dei suoi migliori titoli, anche di conforto. Anzi: continua a tutt’oggi a esserlo. L’ultimo "Necropolis" è un lavoro toccante che testimonia di un’ispirazione ritrovata. Mi pare inoltre che i suoi progetti paralleli Triple Tree e Twa Corbies affrontino il corpus di suggestioni relative a una Old Britannia “dello Spirito”, più letteraria che effettiva, con un’attitudine che ci è congeniale. Qualcosa a metà strada tra il senso di straniamento nostalgico dalla contemporaneità e una consapevolezza ironica di gusto quasi “camp”. Un connubio emozionale affatto scontato che, fatte le debite trasposizioni d’immaginario, è anche un po’ la nostra stessa cifra.
Esiste un’idea di “Italia Eterna” che non è meno articolata e suggestiva, sebbene noi non ci si possa sdilinquire più di tanto sulle vestigia di una “grandeur” forzatamente dismessa o di vocazioni imperiali spazzate via dal vento della Storia.
Ricorderei inoltre, almeno per quanto riguarda l’aspetto della verosimiglianza contenutistica, l’iniziale, potente propulsione fornitaci dall’esempio dei Blood Axis. Da principio mi aiutarono a capire più di altri come un perfetto e inattaccabile allineamento etico/estetico tra premessa teorica e opera finita potesse riuscire dirompente anche là dove la dotazione tecnica non era magari da primato. C’è un potenziale seduttivo supplementare in quei frangenti nei quali l’elemento “Verità” è inequivocabilmente percepibile.
Per questo, a costo di risultare antipatico e riallacciandomi alla domanda precedente, rivendico pulitamente il primato di avere attinto alla suggestione dannunziana prima di ogni altro e con uno statement frontale e diretto, senza ambiguità e mimetismi di sorta.
Esistono, è vero, degli antecedenti tutti italiani, i quali in tempi e modalità differenti si sono in qualche modo avviluppati nelle spire di un estetismo di marca dannunziana. Per quanto concerne gli anni '70, penso ai Pierrot Lunaire, aristocratici al limite del morboso, ai non meno decadenti Saint Just, agli Opus Avantra, la cui erudizione assumeva sentori addirittura museali.
Negli 80, favoriti da un’ispirazione neo-dandystica e neo-decadente alimentata dalla new wave, si distinsero in tal senso Le Masque, Death In Venice, Engel Der Vernichthung e, su tutti, gli Underground Life di Giancarlo Onorato, a mio avviso i più intrinsecamente dannunziani tra tutti.
Ma, e qui vengo al discrimine ultimo, tutti, senza eccezione, hanno guardato al D’Annunzio languido e “oppiaceo” della prima fase, quella voluttuosamente e preziosamente decadente. Noi invece, per primi, ci siamo rivolti al più scabro, movimentista D’Annunzio bellico. All’eroe “insonne”, al milite e al tribuno, scommettendo sul potenziale seduttivo che, in tempi così avari di esempi alti, poteva esercitare su un uditorio alla disperata ricerca di valori non effimeri.
Per cui se oggi si va diffondendo un interesse appassionato intorno alla figura del Vate, anche e soprattutto fuori i confini nazionali, la cosa non può che rallegrarci.
Ma chi tiene a essere intellettualmente onesto non può non riconoscere a Ianva il contributo decisivo a questa diffusione.
Se non sbaglio, nel vostro terzo album, “La Mano di Gloria”, avete ospitato in un brano le voci di Gerhard Hallstatt degli Allerseelen e Frank Machau degli Orplid. Avete mai pensato di collaborare con qualche altro progetto neofolk o martial industrial non italiano? Penso, ad esempio, agli svedesi Arditi, ai tedeschi Triiari, agli americani Awen…
Sebbene ci si incontri davvero di rado, considero Gerhard un amico e un artista la cui coerenza teme ben pochi confronti. Credo si sia prestato volentieri a fare quella parte per noi e, in ogni caso, abbiamo altrettanto volentieri ricambiato rielaborando alla nostra maniera il suo classico "Edelweiss" (da non confondere con l’omonimo brano Ianva) nel suo doppio album di remix "Stirb Und Werde".
Questo genere di esperimenti, sempre interessanti e stimolanti, nel caso di Gerhard lo sono anche di più. Perché, prima ancora che musicista, è un intellettuale e uno studioso riconosciuto di cose tradizionali. Ciò ha fatto sì che potesse pienamente apprezzare il nostro tentativo di trasposizione d’immaginario. Sempre egualmente alpino, ma di un contesto a noi più prossimo come quello delle Alpi Marittime e della cultura Paleo-Ligure e Occitana.
Per Frank il caso è differente. Semplicemente reputo la sua voce la più bella, ricca, profonda ed espressiva mai emersa dal novero del neofolk germanofono. Frank è altresì responsabile di uno dei capolavori assoluti espressi dal movimento nella sua interezza, quel Nächtliche Jünger che ha concepito, suonato e cantato in veste di co-autore negli Orplid. Mi serviva un interprete “schilleriano”, una perfetta incarnazione vocale dell’Idealismo sognante proprio del Romanticismo tedesco. Una volta entrati in contatto via social, è nata la collaborazione. Inutile soffermarsi sul valore della prestazione, visto che è facilmente ravvisabile all’ascolto. Ma vorrei si risapesse qualcosa riguardo la modestia e l’educazione dell’uomo. Si direbbe ormai che in certi ambienti il senso della misura, l’avvertire il dovere dell’urbanità siano diventati il collaterale della vocazione artistica. Per cui chi più sa, chi più ha ricevuto il dono della perizia e dell’ispirazione, più tende a diventare schivo, umile, defilato e persino rinunciatario.
Ciò, naturalmente, determina anche una fenomenologia speculare: ci sono delle assolute nullità che sono sempre più ridondanti e piene di sé, straripanti, sgomitanti e rissose. È da qualche anno ormai che osservo questo genere di stranezze.
Per il resto credo che le collaborazioni siano davvero produttive quando, al di là della mutua utilità di scambiarsi delle frazioni delle rispettive audience, arrivano al culmine di una conoscenza interessante. Come a sancire e fermare nell’atto artistico quella scintilla di feeling personale scoccata in precedenza e senza necessità di essere in alcun modo forzata. Oppure, in alternativa, dalla curiosità e dalla voglia di sperimentare che possono talvolta accendersi quando i due elementi che si mettono in gioco hanno poco o nulla in comune e i rispettivi ambiti di competenza sono, se possibile, ancora più avulsi. Degli Arditi, per esempio, so che dovrebbero essere una costola dei Puissance, altra sigla che, ai nostri inizi, ci aveva ispirato e neppure poco. Ma in questo caso, però, non saprei neppure come avviare una conversazione, figurarsi una collaborazione.
Parliamo delle vostre influenze più legate alla musica italiana. A quali artisti vi sentite oggi più vicini e quali considerate totalmente agli antipodi rispetto all’estetica e alla poetica degli Ianva? In generale, come giudicate lo stato di salute della musica italiana oggi e che esperienze, anche sotterranee e meno conosciute, vi sentireste di supportare o semplicemente consigliare?
Con i consigli ho imparato ad andarci cauto, specie se riguardano soggetti o sigle ancora in attività. Perché poi capita d’incorrere nei malumori di chi non hai citato, magari solo per equanimità o banale dimenticanza. Ultimamente, poi, tutto è un unico nervo scoperto. Ma credo sia comprensibile: i contesti artistici alternativi entro i quali, anni addietro, in molti scegliemmo di operare si sono fatti sterili di soddisfazioni e opportunità come mai si sarebbe potuto prevedere. Neppure più sorretti dalle energie e dall’idealismo della giovinezza, quasi tutti dobbiamo fare i conti con uno stillicidio delle nostre autostime e motivazioni. Sono indispensabili un animo davvero saldo e una consapevolezza lucidissima per non crollare. Specie a fronte di audience capaci di entusiasmarsi ormai solo per delle assolute scemenze.
Concordo sulla necessità di supportarsi l’un l’altro e personalmente continuo a farlo nell’unica forma che conosco da decenni, ossia comperando i dischi che m’interessano o che semplicemente mi hanno incuriosito. La verità è che la nostra è una battaglia di retroguardia. E dunque, per sua stessa natura, concerne sentimenti come l’amor proprio, l’appartenenza culturale e generazionale, la sensazione di essere depositari di un retaggio. L’ovvia conseguenza è che anche le nostre predilezioni e i contesti entro i quali più facilmente ci identifichiamo sono anch’essi debitamente rivolti più al passato che al presente. Per cui, se si parla di Italia, considero idealmente vicino tutto ciò che in questi decenni ha alimentato il nostro immaginario. Senza scendere nel dettaglio dei nomi e delle sigle, dalla new wave italiana, specie quella delle origini, al dark sound di matrice hard e settantiana dentro il quale ho a lungo militato. Dal rock progressivo meno manierato e più oscuro e decadente, alle colonne sonore e alla library music. Alla nostra ispirazione concorrono inoltre molti cantautori, scelti indifferentemente tra alcuni dei canonicissimi maestri e altri più eretici e stranianti. Nell’economia generale delle scelte metriche e lessicali, per esempio, una grande influenza sono state le traduzioni italiane che, a suo tempo, Duilio Del Prete provvide al canzoniere di Jacques Brel.
Poi, si capisce, Enrico Ruggeri con e senza i Decibel, gli amici DishIsNein ex-Disciplinatha (per i quali ho avuto anche l’onore di scrivere alcuni testi), gli indimenticabili Krisma, i Kirlian Camera dei quali sono stato a lungo un fan.
In generale, pesa poi una certa attitudine derivante dall’area apocalittico-industriale. Retaggio sul quale abbiamo intravisto fin da subito la possibilità d’impiantare una seducente eresia che, se da un lato poteva attingere alla forma autoriale, dall’altro poteva avvalersi di una solidissima tradizione di colonne sonore, specializzazione nella quale gli italiani non hanno per molto tempo temuto rivali. Testi cantautorali spalmati su una soundtrack vintage-apocalittica: ecco la sintesi alla quale siamo pervenuti e che deve qualcosa a tutti, ma anche molto a noi stessi.
Per dirla tutta, negli scorsi decenni in Italia non è mancato nulla: da una scena Hc di tutto rispetto a formazioni garage e psichedeliche apprezzate in tutto il mondo. Da band black metal assolutamente all’altezza e, talvolta, persino capaci di declinarne lo spirito anche in chiave “italica” (non a caso col mondo black metal Ianva intesse da sempre ottimi “rapporti di vicinato”), a tutte le varie declinazioni di musica elettronica, dal rumorismo alla pura dance music. Per non parlare delle molte sigle doom, stoner, di curiosi ibridi di cantautorato metallico o shoegaze, senza tacere di alcuni “colleghi” di area apo- e neo-folk. Peccato però che alla quasi totalità degli italiani, non interessi più nulla di tutto ciò. Almeno, in altri paesi, a una maggioranza supina al mainstream si contrappone una minoranza robusta, che funziona da coscienza critica. Ciò ha finito per contemplare eccezioni molto interessanti, anche sotto il profilo strettamente commerciale. Penso al Nord Europa che produce fenomeni artificiali, ma estremamente divertenti come i Ghost, o proposte più seriose come tutta la voga vichinga tipo Wardruna, Skuggsja e Myrkur o, ancora, stravaganze genialoidi come Anna von Hausswolff. Tutte cose indubbiamente interessanti, tecnicamente ben curate e con un appeal internazionale, sebbene credibili anche sotto l’aspetto del recupero delle radici. E, infine, persino in grado di generare un buon indotto, il che torna sempre utile anche e soprattutto ai fini dell’Arte.
Ora, chiedo: perché diavolo in Italia è letteralmente impossibile approdare a qualcosa di paragonabile? La risposta è che, da almeno un quindicennio, nell’industria musicale italiana, o meglio in quel circo di pataccari che ancora si gabella per tale, spadroneggia con modalità totalitarie e para-mafiose una cosca di pochi e ben noti individui che hanno totalmente monopolizzato ogni comparto massmediologico. A costoro è riuscita, caso unico nell’intero pianeta, l’impresa di annientare completamente ogni possibile sottocultura. In questo coadiuvati dalla piaggeria di coloro che, per dovere morale e coerenza professionale, sarebbero stati obbligati a vigilare. Parlo dei tanti critici musicali “storici” che, pur di restare a libro paga, si sono ridotti a disquisire con serietà e compunzione di filastrocche e nenie risibili che cianciano di selfie, spiagge pugliesi e pagliacciate annesse.
Nell’immaginario che hanno creato, modellandolo sulle fantasie e sulle aspirazioni della peggiore tipologia di italiano, questo paese è definitivamente scivolato nell’emisfero Sud. Ma non in quello autentico, problematico, ma innegabilmente creativo e vitale, bensì in quello che alberga nelle loro teste da trogloditi cocainomani di provincia. Una sorta d’improbabile America Latina tutta spiagge, culi roteanti, pinhecolade, ciabatte, catene d’oro, canottiere pezzate e un'improbabile e variegata umanità che, sebbene viva nelle baracche, ha “gli occhi che ridono sempre” e “si muove benissimo perché ha il ritmo nel sangue”. Oggi la musica in Italia vive unicamente di queste cafonate. Queste sì intrinsecamente e profondamente razziste, barbariche e segregazioniste, come solo può esserlo il parvenu di paese, il villano che si pensa “trendy”, l’arricchito senza alcun gusto ed erudizione.
Qualcuno obietterà che esiste anche una scena indipendente. Che questa “riserva critica” è viva e lotta insieme a noi. Peccato che questa senile ridotta – in subordine ai suoi Svengali politici di riferimento - sia tutta tesa a stanare i presunti “impresentabili” come noi, ma non abbia nulla da ridire sui delinquenti dei network commerciali e sulla degenerazione morale, spirituale ed estetica che sono riusciti a infliggere al pubblico italiano. Il fatto è che gli amici progressisti hanno maturato un fiuto infallibile per il Potere autentico e sono in grado di produrre l’immediata risposta pavloviana della diligente messa a servizio. Sono inoltre persuaso che una massa di minus habentes, tutta avvinta dall’estetica citata poco fa, in fondo torni utile. Non solo perché scioccamente individualista e ottusamente gretta nel perseguire aspirazioni e soddisfazioni animalesche e quindi destinata alla sottomissione perenne, ma anche perché consente loro di continuare a raccontarsi l’un l’altro la favoletta della superiorità morale e intellettuale.
Posto poi che continuino a costituire “l’alternativa”, come si esplicherebbe oggi questa tensione libertaria e creativa? Officiando il tristissimo e sterile rituale del concertone “aggratis”, una volta l’anno, con il solito indie-pop da quarantenni con la testa al liceo o quella ciofeca di raggamuffin salentino che nel resto del mondo fanno sghignazzare anche le pietre? Mi chiedevi cosa considero antitetico: credo di essere stato esaustivo.
Con un'ulteriore precisazione, però. Avverto una quasi identica lontananza rispetto a quei progetti che, con il pretesto della sovversione, della scorrettezza politica o di un sovranismo un tanto al chilo, propinano lavori sciatti e scadenti, infarciti di semplificazioni e banalizzazioni. Presupponendo che una presa di posizione “scomoda” sia di per sé sufficiente a creare “l’opera d’arte”. La trovo una forma di faciloneria e di supponenza del tutto analoga e speculare a quella di certi “colleghi” di segno opposto.
Gli uni e gli altri nutrono una fede acritica e automatica nel valore aggiunto costituito da una serie di tic ideologici da anteporre all’opera mentre spessissimo è esattamente vero il contrario.
Personalmente, sono da sempre un appassionato di letteratura e cinema a tema distopico, quindi ho apprezzato molto “La mano di gloria” e il tratteggiare un fosco futuro che assomiglia in modo preoccupante al nostro presente. L’ho trovato il seguito ideale di “Italia: Ultimo Atto” che era un po’ un affresco storico sull’evidente decadenza del Belpaese. “La mano di gloria” nasceva come un romanzo scritto da Mercy e ambientato nel 2029. Vedete all’orizzonte altri scenari possibili per l’Europa o sentite sempre più vicino il rischio di un’oppressiva e censoria “oligarchia illuminata”? Del resto, il tempo è poco e al 2029 mancano solo nove anni ormai…
Se sul piano previsionale quella saga aveva un difetto era quello di essere forse eccessivamente ottimista. Il che può sembrare paradossale visto che la prospettiva finale era quella di un’apocalittica catastrofe. Tuttavia vi si dava per scontata l’esistenza di “semi” culturali e spirituali pressoché perenni che, lasciati finalmente liberi di germogliare in un mondo ritornato vergine, non avrebbero potuto che ricreare, col favore di tempi lunghissimi, una pienezza e una completezza della condizione umana definitivamente precluse all’uomo terminale pre-catastrofico.
Oggi, guardandomi attorno, non posso che nutrire seri dubbi sull’effettiva esistenza residuale di qualcuno di questi “germi”. Inoltre, pure azzeccando le previsioni a riguardo di una gran quantità di eventi e situazioni geopolitiche, al punto che in numerosissimi mi hanno scritto chiedendomi se per caso non possieda davvero doti divinatorie, mi rendo conto di avere accordato alla tempistica del collasso un passo assai più graduale e compassato di quello che, in effetti, si sta manifestando. Colpa senz’altro del riflesso condizionato di attribuire ai tempi che stiamo vivendo dinamiche proprie della Storia novecentesca, mentre anche questo ennesimo parametro è saltato. Il risultato, ancora una volta paradossale, è che stiamo vivendo un’accelerazione assolutamente inedita del processo storico, ma essendo questo, nella percezione collettiva, disciolto nella cronaca narrata dai media, tutto appare irrealmente immobile. La realtà è che il tempo che ci divide dal punto di rottura credo sia ben più esiguo di 9 anni.
Come è nata e si è sviluppata la collaborazione con Enrico Ruggeri in “Canone Europeo”?
Se la collaborazione è andata in porto il merito è solo di Enrico, le cui sensibilità ed esperienza sono state decisive per intuire che noi, sebbene ci si conoscesse fin dai tempi di "Disobbedisco!" e ci si fosse anche occasionalmente incontrati, non ci saremmo mai azzardati a chiedergli alcun favore. Di solito, nel mondo “normale” funziona così: ti guadagni la stima o la benevolenza di qualche personaggio “famoso” e cerchi di cavarne qualcosa. Ma noi non siamo fatti di quella pasta e chi ci conosce da vicino lo sa.
L'ultima cosa che voglio è risultare invadente e inopportuno. Specie nei confronti di persone che d’impegni, incontri, relazioni e deadline ne hanno piena la vita. E che dall’oculata gestione dei medesimi e del loro tempo dipende gran parte della loro serenità professionale. Se una regola che ci siamo dati è quella di non tirare nessuno per la giacca, e se questa regola è estendibile teoricamente a tutti, per Enrico lo è stata a lungo ancora di più. Proprio perché la sua affabilità e la sua modestia dovevano avergli guadagnato, così pensavamo, le attenzioni di fin troppi procacciatori di favori.
Sicché solo in tempi più recenti, in forma di bonario e ironico rimprovero, lui stesso si è proposto di fare qualcosa insieme. Che dire, se non che gli sono grato per questa delicatezza, per questa squisitezza di tatto, almeno tanto quanto lo sono per il guesting? Il punto è che Enrico, in età matura, è il classico gentiluomo cordiale e riflessivo, colto, ma senza ostentazioni, così come in gioventù ha incarnato con assoluta naturalezza l’archetipo del giovane artista un po' dandy e decadente, dai modi disincantati e aristocratici. Tipologie umane con le quali mi sento sommamente a mio agio, ma che nell’Italia di oggi non mi sorprende suscitino qualche prurito di troppo.
Sfido io: con tutti i neo-cafoni e le mezze tacche di cui straripa il Paese non c’è di meglio che un personaggio pubblico la cui cultura, il cui taglio comunicativo e temperamentale sono così poco contemporanei per stanarli e rivelarli per ciò che sono.
Aggiungerei un dettaglio. Cantare "Canone Europeo" con Enrico rappresenta anche una sorta di ideale completamento di una vicenda esperienziale e intellettuale iniziata decenni fa. Nella primavera del 1980 andammo, tra liceali, a un concerto dei Decibel che, in quel momento, parevano in procinto di conquistare il mondo. Avevamo da poco tutti cambiato look. Via capelli lunghi, jeans e stivaletti di discotecara memoria. E dentro ciuffi spioventi sul viso, scarpe con la para, impermeabili e camicie con il collo inamidato. Tutti ci eravamo trasformati in tormentati “intellettuali europei”!
Insomma, avrai capito che era l’inizio della voga new wave in Italia e, per un breve periodo, anche noi - modesto corrispettivo italiano di ben più rutilanti fenomeni d’oltremanica - avevamo trovato i nostri “campioni”. Oggi, dopo decenni, dopo che l’estetismo formale è venuto naturalmente meno, forse, intorno a quella posa vetero-europea tutta istinto ed esteriorità ci è infine riuscito di addensare qualche corrispondenza culturale in più. È probabile che “l’insonnia febbrile” di quei giorni non servisse ad altro se non a costruire un bellissimo contenitore che ognuno poi, nelle stagioni successive della propria esistenza, ha avuto la possibilità di colmare o meno con un qualche contenuto.
Dall’innocenza all’esperienza, è suggestivo ritornare con l’amara consapevolezza della maturità su quell’ambigua, sfuggente, seducentissima suggestione. E farlo “incrociando i microfoni” con Enrico, nostro campione di allora, è un’esperienza che, da sola, premia e motiva il lavoro di questi anni.
A livello strettamente musicale, ho sempre apprezzato la capacità degli Ianva di creare atmosfere che rimandano a visioni cinematografiche di spessore. Penso alle colonne sonore di Ennio Morricone in primis, ma anche Nino Rota e Franco Micalizzi. Le vostre passioni nel campo del cinema?
Beh, credo che la storia di Stefania sia nota a chi ci segue e che la sua passata carriera di giornalista, sia presso riviste musicali, sia attraverso uno dei primi portali dedicati al cinema di genere, parli da sola. Anche la sua precedente esperienza discografica ne era profondamente intrisa, e questa passione, del resto, è stata uno dei primi motori della nostra reciproca conoscenza.
Dal canto mio, suppongo che la mia storia pre-Ianva sia abbastanza nota, con i progetti dei quali ho fatto parte (Malombra, Il Segno del Comando) caratterizzati da una fascinazione quasi maniacale verso quell’unicum di genere che è il gotico-cinematico all’italiana, le sue atmosfere morbose e le sue ambientazioni sonore inimitabili. Siano esse degli horror o dei thriller nazionali anni 60 e 70 o, ancor più, quelle dei teleromanzi Rai a sfondo misterico o paranormale.
Una passione, questa, che abbiamo cercato di trasmettere ai nostri più giovani compagni di band. Non fosse altro perché eravamo certi che, come musicisti, potessero creativamente avvantaggiarsi dalla disamina di determinati dispositivi e accorgimenti stilistici che rendevano unico l’approccio italiano al genere. Scommessa vinta perché, almeno alcuni, sono diventati a loro volta estimatori di questo cinema, specie nelle sue declinazioni più oscure. E soprattutto dell’arte della sonorizzazione e del design che rendevano queste pellicole, talvolta modeste per mezzi e qualità complessiva, assolutamente fascinose.
Per il resto mi rendo conto che è assai difficile trasmettere a una platea giovane l’esatta portata dell’influenza che questo mondo di “arti minori” (cinema di genere e sceneggiati su tutti) ha esercitato sulla nostra generazione. E che, almeno per un breve lasso di tempo, parve sul punto di dar vita e forma a una provvisoria versione di cultura popolare, a un soffio dal trasformarsi in folklore. Già che ci siamo ti dico anche che uno degli errori madornali commessi negli scorsi anni da tutto il comparto artistico che per comodità chiamiamo neofolk è stato quello di disconoscere o ignorare tutte quelle forme di sottocultura popolare che, nei decenni precedenti, si erano casualmente, ma a volte con effimera efficacia, sobbarcati il compito d’incarnare provvisoriamente lo spirito del “Volk”, come io insisto a definirlo. Per noi italiani, di certo, a un dato momento quello spirito è passato anche da dove vi ho appena raccontato. Ma chiunque sia interessato a riaccendere il fuoco dovrebbe iniziare a rintracciarne altri di questi momenti. C’è tutta una sottocultura da ricostruire da capo. Fate un poco voi.
Il vostro nuovo Ep in vinile, “1919”, appena uscito per Antica Fonografia Il Levriero, è dedicato anch’esso all’impresa fiumana, essendo stato anche il centenario nel 2019. Trovo molto efficace lo slogan “Restiamo Fiumani” che accompagna l’uscita del disco. Si tratta di una sorta di necessario ritorno alle origini per gli Ianva? Volete raccontarci qualcosa anche della collaborazione con Edoardo Sylos Labini presente nell’Ep?
Come accennavo in apertura, l’azzardo intellettuale e la riconversione di un immaginario sepolto che sono stati all’origine della vicenda Ianva, o meglio il racconto a posteriori di quell’esperienza, hanno costituito il contenuto del mio intervento al convegno “Fiume Città Sacra” che ha avuto luogo a Milano il maggio scorso. Decisamente una piccola gemma nell’ambito delle iniziative relative al Centenario dell’Impresa di Fiume che nel corso del 2019 si sono tenute un po’ ovunque, in Italia.
Il 7'', infatti, era stato ideato fin da subito per costituire l’interfaccia musicale del convegno e per questa ragione risulta compreso a pieno titolo tra gli atti del medesimo.
Quindi, più di un necessario ritorno alle origini, parlerei di un ciclico ritorno all’immaginario che ci ha battezzato. Già era accaduto nel 2015 quando, in occasione del Centenario dell’entrata in guerra dell’Italia, avevamo dato alle stampe "Memento X-C" (in cui il “10” si riferiva al decennale della nostra prima uscita discografica e “100” al centenario storico). Allora si era trattato della ristampa ampliata di brani e contenuti del nostro esordio. Quest'ultimo episodio, invece, presenta due brani inediti che vanno a occupare idealmente e cronologicamente un tassello finora mancante nel grande affresco attorno al quale lavoriamo da anni. In questo caso, l’atmosfera frenetica di quei giorni immediatamente post-bellici. Pervasi senz’altro di disillusione e di livore, ma anche di straordinarie energie ancora inespresse. E soprattutto da una diffusa pretesa di equità e giustizia da parte di quelle moltitudini di reduci, gran parte dei quali neppure ventenni. Aspirazioni viscerali e potenti alle quali la grande dimestichezza con le prassi dell’azione e della manovra coordinata maturata in trincea conferiva una concreta e fino a poco prima impensabile potenzialità d’imporsi.
Sempre in quest’ottica di rievocazione di “spiriti” vecchi di un secolo, abbiamo provvisto una veste sonora alla celebre orazione del Comandante D’Annunzio intitolata appunto "Disobbedisco!" che, pur titolando il nostro lavoro sull’epopea fiumana, non avevamo finora mai inserito. E chi, per recitarla, era più titolato di Edoardo Sylos Labini che D’Annunzio lo ha portato per anni sui palchi dei teatri italiani? Edoardo è un agitatore culturale tra i più attivi e risoluti che ci siano in circolazione. Ce ne vorrebbero centinaia come lui. Personalmente, sostengo e supporto le sue iniziative e non solo perché, a suo tempo, si è occupato di noi. In un clima di asfissiante conformismo culturale e con un’informazione ufficiale grottescamente faziosa, personalità come la sua sono vitali per la libertà di tutti.
Per i nostalgici appassionati, come il sottoscritto, di supporti sonori come il vinile (e le cassette) pensate in futuro di ristampare anche i vostri precedenti lavori usciti solo su cd in forma di Lp? Del resto, sarebbe un bel gesto simbolico contro la decadenza dei nostri tempi volti alla smaterializzazione e alla virtualizzazione della musica, spesso orchestrata da aziende che lucrano sullo streaming sfruttando il lavoro degli artisti. Avete una posizione sulla questione?
La mia posizione in merito è assolutamente netta: arriviamo da anni sequestrati da una tale idolatria per la tecnologia che persino le conseguenze più ovvie e immediate della sua estensione indiscriminata sono state ignorate per le solite ragioni di conformismo ideologico e di servilismo verso le nuove caste dei mogul delle piattaforme. Nei rari casi in cui qualcuno ha osato sollevare qualche ragionevolissima obiezione, le sue argomentazioni sono state tacitate, screditate e derise. Ma ciò non rende la verità meno evidente. Se pure l’intero cumulo della creatività umana di ogni tempo fosse reso interamente disponibile all’istante, senza alcun costo, limite, dovere, responsabilità, consapevolezza, impegno o riflessione richieste all’utenza - in pratica lo scenario ideale di tutti i “progressisti duepuntozero” e di tutti i nativi digitali - ciò non renderebbe automaticamente l’utilizzatore all’altezza di trarne intellettualmente profitto.
Regalare qualcosa o facilitarne all’estremo la fruizione non opera necessariamente il miracolo di trasformare gli analfabeti in letterati e gli ottusi in acuti. Anzi, pare evidente, vista la regressione della soglia di attenzione generale a livelli prossimi alla sub-normalità, che semmai si determina una tendenza contraria. Lo stiamo capendo solo ora che quello che per noi era un atto assolutamente naturale e scontato, come ascoltare della musica, appassionarsi a un artista o a un genere, atteneva in realtà a qualcosa di profondo e complesso. Di solito correlato alla precisazione dell’individualità personale e parte di un processo di acquisizione progressiva di un bagaglio culturale, con tutte le sue incertezze, le sue piccole conquiste, i suoi passi falsi. La gradualità dell’affinamento del gusto, il processo tortuoso e avvincente che contribuiva a creare un’identità adulta e che oggi è completamente precluso. Pur disponendo di un oceano di dati dal quale spizzicare svogliatamente e a casaccio, nella speranza che nel giro di qualche secondo arrivi la scossa che dovrebbe trarre dalla torpidità e dal tedio, giacché, lo sappiamo tutti, non c’è noia peggiore di quella che attanaglia gli ignoranti.
Dunque, per quanto l’offerta sia sconfinata, l’effetto è quello di un vuoto cosmico, sterile e indifferenziato. Perché chi dovrebbe semplicemente servirsi da sé ormai non dispone più degli organi di senso per orientarsi. Né di alcun codice estetico per discernere. Né, tanto meno, di nessun casellario mentale in cui stipare congruamente l’esperienza estetica che vorrebbe conservare.
Per cui, sì: per noi la riproposizione del supporto fisico in tutte le sue forme tradizionali è una condizione essenziale. Al punto che se, per qualsivoglia ragione, non fosse più praticabile, trarremmo da ciò l’immediata conclusione che l’esistenza stessa della sigla Ianva vedrebbe venir meno la sua ragione d’essere. Come ti ho detto, il tema fondante di Ianva è la sfida. E la nostra forma di militanza contro il tempo corrente si traduce anche in questo: puntare, in epoca di generale liquefazione dell’esistente, sulla solidità. Dei contenuti, delle parole, delle scelte musicali ed estetiche, dei rapporti umani e infine, come logica conseguenza, anche dei supporti.
Poi c’è l’azzardo: quello di riuscire anche a venderli, in un contesto in cui chi ci sostiene sono alcune, sebbene prestigiose eccezioni, mentre la regola continua, oggi più che mai, a esaurirsi in ostracismo e sabotaggio. Ma, malgrado loro, finora ci siamo riusciti, per cui, con calma e pazienza, ogni cosa a suo tempo si materializzerà. Sempre con cautela: sfidare e azzardare non sono sinonimo di scialacquare.
Volete ricordarci le vostre prossime date dal vivo?
Ad oggi diamo appuntamento a tutti il 14 marzo al Revolver di San Donà di Piave, dove, nel cuore del territorio dove si svolsero gli eventi che noi ci ostiniamo a narrare, presenteremo live il nostro 7 pollici commemorativo e suoneremo una scaletta ad hoc. Inoltre stiamo vagliando alcune proposte.
L’attività live si è fatta, per un progetto come il nostro, con molti membri titolari e tutti con condizioni esistenziali, lavorative e abitative assai diverse tra loro, negli ultimi anni sempre più problematica. Per questo, quando riusciamo a trovare la proverbiale quadra ci teniamo affinché le aspettative di chi ci supporta e ci vuole bene non vengano mai deluse.
Dopo “1919” quali sono i vostri progetti futuri? Qualche novità in cantiere? Un nuovo album all’orizzonte?
Se guardi la nostra discografia ti renderai conto che con il tempo si è andato delineando uno schema. Ianva è un po' come certe serie televisive nelle quali ogni singolo episodio sovrappone a una vicenda autoconclusa anche il dipanarsi di una main-story che, puntata dopo puntata, si snoda per tutta una stagione. Ecco, per noi la main-story è costituita dal mito della Grande Guerra e dalle vicende ad essa collegate e questa è anche la dimensione in cui, di solito, è ragionevole aspettarsi la riproposizione, con qualche sfumatura via via differente, della nostra formula musicale e testuale “classica”.
Intervallati a questi episodi giungono, a scadenza periodica, i dischi “liberi”. Dove, sia sotto l’aspetto musicale che testuale, si sperimenta molto di più e ci si assume anche qualche rischio supplementare. Di solito dischi del genere vengono pienamente apprezzati in differita, ma all’atto della loro uscita c’è sempre qualcuno che fa paragoni a dir poco impropri. Ma è un rischio che vale la pena di correre perché questi sono i lavori in cui ci sentiamo liberi anche rispetto a noi stessi. E, infatti, se li riprendi in mano dopo qualche tempo puoi renderti conto di quanto ciò che oggi può suonare ortodosso, quindi piacevole e rassicurante, sia in gran parte frutto degli azzardi di ieri.
Dunque, al prossimo giro, aspettati qualcosa di imprevedibile, magari passando attraverso un agile episodio intermedio finalizzato a calibrare e “a prendere le misure” al suono che ci servirà questa volta.
(16 febbraio 2020)
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L'ensemble dei Disobbedienti di Claudio Fabretti Felice anomalia nel panorama indie italiano, i genovesi Ianva ripudiano suoni, stili e modelli dell'alternativese nazionale. Coniugando la marziale drammaticità del neofolk con il patrimonio storico della canzone d'autore italiana e con un'attitudine decadentemente "noir". Il loro debutto sulla lunga distanza, "Disobbedisco!", sorta di omaggio teatrale all'impresa fiumana di D'Annunzio e dei suoi legionari, è divenuto un caso musicale. Ne parliamo con le due voci della band, Mercy e Stefania D'Alterio, in questa intervista esclusiva.
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La Ballata Dell'Ardito (Ep, Il Levriero, 2005) | ||
Disobbedisco! (Il Levriero, 2005) | 7,5 | |
L'Occidente (Ep, Il Levriero, 2007) | 6,5 | |
Italia: ultimo atto (Il Levriero/Alpha South Records, 2009) | 7 | |
La mano di gloria (Il Levriero/Alpha South Records, 2012) | 6,5 | |
Canone Europeo(Il Levriero, 2017) | 7 | |
1919(Ep, Il Levriero, 2020) | 7,5 |
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